Il ruolo principale attribuito alle misure di sicurezza personali è quello di sanzione penale, aggiuntiva rispetto alla pena. Tale istituto è espressamente disciplinato dal codice penale del 1930, con il quale il legislatore ha cercato di contemperare gli orientamenti opposti sviluppatisi in merito alle misure di sicurezza.
Il primo dei due orientamenti evidenzia la necessità di soffermare l’attenzione del giudice più sul soggetto pericoloso che sul fatto da questi commesso, analizzando l’ambiente in cui si è sviluppata la sua personalità “pericolosa” e la sua sensibilità per valutare se e quando sia indispensabile sanzionare tale soggetto per neutralizzarne la pericolosità sociale e simularlo a condurre uno stile di vita compatibile con l’ordinamento giuridico.
La seconda tesi, tipica della Scuola Classica, invece, concentrava la propria attenzione sul fatto antigiuridico, ritenendolo imprescindibile per l’applicazione di una sanzione penale. Attualmente, vige il principio del doppio binario anche in seguito all’ entrata in vigore della Costituzione, la quale non ha espressamente recepito tale assunto, ma non lo ha neppure contrastato.
Nell’ipotesi in cui l’autore del reato sia imputabile è possibile applicare allo stesso una pena proporzionata all’evento realizzato o alla sola condotta, se trattasi di reato di mera condotta, dei quali il giudice abbia accertato la responsabilità e cumulativamente, la misura di sicurezza adeguata al tipo di pericolosità che caratterizza il reo.
Con l’art. 25,terzo comma, Cost. i costituenti hanno ribadito quanto previsto dall’art. 199 c.p. : anche le misure di sicurezza, come le pene, sono sottoposte al principio di legalità, per cui ogni misura di sicurezza, come ogni pena, deve essere espressamente stabilita dalla legge.
Il principio di legalità, come scardinato da dottrina e giurisprudenza è costituito da 3 sottoprincipi o corollari individuati nei principi di riserva di legge, tassatività (con conseguente divieto di analogia) e irretroattività. Tali principi però trovano un’applicazione attenuata nell’ambito delle misure di sicurezza. In fondo non sempre risulta necessario, oltre che possibile, applicare il principio di tassatività se si guarda alla funzione dell’istituto; se per la pena è necessario che il soggetto conosca le conseguenze della propria azione illegale, vista la funzione general-preventiva della pena, tale necessità viene meno in caso di sanzione rivolta al futuro perché applicata per prevenire un futuro reato sulla base di una precedente condotta riprovevole, che non si ha la presunzione di impedire, ma che, anzi, rappresenta il presupposto applicativo.
Inoltre, non è possibile individuare aprioristicamente la durata del trattamento sanzionatorio perché non guarda alla riprovevolezza di un fatto già accaduto (del quale si può misurare la gravità), ma alla pericolosità del soggetto, caratteristica che potrebbe persistere anche fino alla morte dello stesso. Nonostante la difficoltà di individuazione della pericolosità, della persistenza di tale qualità negativa e della predisposizione del quantum sanzionatorio, è imprescindibile fare ricorso a tale elemento soggettivo, non solo perché tale requisito si ricava dalla lettera dell’art. 202 c.p. , ma soprattutto perché risulta imprescindibile dall’analisi della ratio di tale istituto: elidere ogni possibilità di recidiva. La pericolosità sociale è elemento costitutivo non solo delle misure di sicurezza ma anche delle misure di prevenzione, le quali si differenziano dalle prime, la terminologia dovrebbe aiutare sul punto, perché applicabili ante delictum.
Il concetto di pericolosità è solo accennato nell’art. 203 c.p. , ma non ben definito dal legislatore, il quale ne individua solo gli indici sintomatici, tra i quali quelli previsti dall’art 133 c.p. . Essa si differenzia dalla capacità a delinquere, secondo dottrina maggioritaria, soltanto per l’intensità di tale qualità personale; la pericolosità è una species del genus “capacità a delinquere”.
Il giudice, quindi, in relazione all’applicazione della misura di sicurezza, dovrà effettuare un giudizio prognostico sulla probabilità che il soggetto commetta in futuro nuovi reati (al fine della motivazione il giudice può richiamarsi ai precedenti penali del condannato senza alcun riferimento alle concrete modalità della sua condotta e dal genere di vita da lui tenuto.
Il legislatore ha cercato di limitare l’arbitrium judicis individuando, accanto all’elemento soggettivo anche un elemento oggettivo consistente nella commissione di un fatto previsto dalla legge come reato. Tale requisito sembra collidere col disposto dell’art. 203 c.p. che ammette l’applicazione delle misure di sicurezza anche ai soggetti non imputabili. Per i sostenitori della tesi dell’imputabilità come elemento costitutivo della colpevolezza, vi potrebbe essere armonia tra le norme solo se a priori si ammettesse una nozione di reato in cui non rientri l’elemento soggettivo del dolo o della colpa.
Tesi sostenibile in un contesto in cui il diritto penale sia di carattere oggettivo, ma il nostro, invece, concepisce il reato come fatto tipico antigiuridico e colpevole.
Secondo un distinto orientamento, compatibile con gli artt. 202, 203 c.p. gli stati psichici del dolo e della colpa sarebbero riscontrabili anche nei minori e la pericolosità ex art. 203 c.p. va desunta dalla totalità degli elementi dell’art. 133 c.p., comprendente il dolo e la colpa.
Criticamente si afferma che la valutazione del dolo e della colpa non sia momento costante del giudizio di pericolosità, restando limitata ai soggetti imputabili. Secondo i critici, è la premessa ad essere errata: l’imputabilità è uno status soggettivo che inerisce alla persona a prescindere dall’azione in concreto, onde essa va trattata nella teoria non del reato, ma del reo. Inoltre, l’esistenza del reato anche in assenza di imputabilità è confermata nel nostro codice dagli artt. 86,
111, 648 c.p. . Elemento essenziale del reato è l’appartenenza psichica del fatto alla gente, la quale verrebbe meno nel caso in cui ricorrano cause esterne (caso fortuito, forza maggiore, evento imprevedibile) che escludano al cd. suitas.
Tra i requisiti oggettivi, in alternativa al reato, il legislatore ha previsto il cosiddetto quasi – reato, assimilato al reato impossibile e all’art. 115 c.p. . Altro corollario del principio di legalità è rappresentato dal principio di irretroattività. Sul punto occorre evidenziare che l’irretroattività va riferita al reato e non alla misura di sicurezza. Il soggetto, cioè, non può essere considerato pericoloso per una condotta oggi penalmente rilevante, ma che al momento della commissione non costituiva un illecito penale. Invece, può applicarsi una misura di sicurezza prevista dalla legge entrata in vigore dopo il fatto commesso; ciò si evince dall’art. 200 il quale dispone che le misure di sicurezza siano regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione e dalla necessità di sfruttare ogni conoscenza e scoperta scientifica che evidenzi una nuova e più efficace soluzione per neutralizzare il soggetto pericoloso.
Alla luce dei principi costituzionali si ricava anche l’assunto secondo il quale le misure di sicurezza debbano essere applicate come extrema ratio ed inoltre, si considerano inapplicabili le ipotesi codificate dal legislatore del ‘30 di pericolosità presunta. Però, la giurisprudenza invece di optare per un giudizio incidentale di incostituzionalità delle norme che prevedono la presunzione, ha optato per un’interpretazione costituzionalmente orientata delle stesse, prevedendo sempre la verifica in concreto della pericolosità.
Sono sorti dubbi sulla natura penale delle misure di sicurezza nonostante la previsione delle stesse all’interno del codice penale, perchè gli argomenti a sostegno della natura penale sono risultati poco calzanti. Si pensi alla tesi che fa discendere tale natura dal riferimento che il legislatore faccia al reato, come elemento oggettivo della misura; adeguandosi a tale orientamento si dovrebbe sostenere che anche il risarcimento del danno morale subiettivo da reato sia una sanzione penale.
Si pensi ancora alla tesi che fa derivare la natura penale dalla funzione: come la pena, anche la misura di sicurezza è mezzo di lotta contro il crimine. Tale argomento non è calzante, risulta insufficiente se si osserva che anche la misura di prevenzione, qualificata come sanzione amministrativa, ha questa funzione. Decisivo, invece, risulta l’argomento che ricava la natura penale dall’applicabilità della misura mediante un procedimento giurisdizionale penale.
Data presupposta la natura penale risulta indispensabile individuare la distinzione tra pena e misura di sicurezza per evitare le garanzie propria dell’applicazione della pena vengano eluse dal giudice mediante la qualificazione formale della sanzione come misura di sicurezza, nonostante la natura sostanziale di pena.
La misura di sicurezza ha una funzione special-preventiva: il giudice nell’applicarla si pone come obiettivo la prevenzione di una probabile recidiva con un trattamento risocializzatore dell’individuo (tipico del nostro ordinamento personalistico).
La pena, invece, oltre alla funzione special-preventiva, svolge una funzione retributiva-intimidativa, perchè con la sua applicazione si punisce l’autore della riprovevole violazione di un comando, a differenza della misura di sicurezza, in cui l’afflittività non viene concepita in funzione punitiva.
Vi è differenza tra le due sanzioni anche perchè la pena è determinata a priori in quanto proporzionata al fatto di reato, mentre la misura è indeterminata (in alcuni casi il legislatore ha previsto un quantum minimo che può essere non rispettato nell’ipotesi in cui, verificando la persistenza in concreto della pericolosità durante l’esecuzione della misura, risulti venuto meno l’elemento soggettivo prima del decorrere del tempo minimo di applicazione della misura.
In altri casi può risultare necessario, invece, disporre una misura di sicurezza distinta quando il reo risulti portatore di nuove manifestazioni di pericolosità sociale (si pensi alla sostituzione di una misura non detentiva come la libertà vigilata come il ricovero in casa di cura e custodia).
Dal disposto degli artt. 212, rubricato “casi di sospensione o di trasferimento di misure di sicurezza” e 231-232 c.p. si deduce che il giudice non può ordinare il ricovero in casa di cura e custodia se in precedenza ha applicato la misura della libertà vigilata non è stata riscontrata la pericolosità dovuta ad infermità di mente.
In caso di sopravvenuta infermità il giudice non è autorizzato ad intervenire sul trattamento della malattia mentale; il ricovero potrà essere frutto di una iniziativa dell’ Autorità amministrativa o dell’intervento dei parenti dell’infermo. Solo nell’ipotesi in cui sussista un nuovo reato, distinto dal precedente che aveva rappresentato il presupposto per l’applicazione della libertà vigilata, il giudice potrà valutare la pericolosità dovuta ad infermità di mente